Giorgio Ambrosoli venne assassinato a Milano con tre colpi di rivoltella sparati da un sicario di Cosa Nostra americana, William Joseph Aricò, giunto appositamente dagli Stati Uniti, su mandato di Michele Sindona, il finanziere siciliano affiliato alla “famiglia Gambino” e legato alla P2, nonché proprietario di quella Banca Privata Italiana ( nella quale erano confluite la Banca Unione e la Banca Privata Finanziaria) della quale l’avvocato Ambrosoli nel settembre 1974 era stato nominato dal governatore della Banca d’Italia Guido Carli commissario liquidatore.
Dopo aver ricevuto il mandato l’avvocato Ambrosoli aveva assunto il controllo della Banca Privata Italiana, messa in liquidazione coatta su sentenza della magistratura di Milano, e si era precipitato a raccogliere e ad esaminare una marea di documentazione, sarebbero occorse almeno trenta persone, ma lui era solo, e aveva una gran fretta, sapeva di ingaggiare una corsa contro il tempo.
Ben presto individuò la trama delle articolatissime operazioni che Sindona aveva intessuto, gli scandali finanziari in cui aveva trascinato i suoi istituti di credito, inquadrò personaggi come Roberto Calvi e le operazioni illegali in cui era coinvolto Sindona, l’uomo che fino a poco tempo prima era considerato dalle due sponde dell’Atlantico uno dei più geniali uomini d’affari del mondo. Ambrosoli scoprì che la società di controllo “Fasco” era l’interfaccia fra le attività palesi e quelle occulte. Con le sue indagini penetra sempre più in un magma fatto di intrecci tra mafia, politica, affari illeciti, riciclaggio, finanza corrotta, massoneria deviata. Emergono non solo le gravi irregolarità commesse dalla banca e le falsità delle scritture contabili, ma anche rivelazioni di tradimenti e connivenze di pubblici ufficiali con il mondo della finanza di Sindona e di Cosa Nostra.
Fin dalle prime settimane del suo mandato Ambrosoli iniziò a ricevere “consigli” non richiesti, quindi inviti alla moderazione e tentativi di corruzione. Ma lui prosegue imperterrito, anzi sempre più motivato nella sua azione. Certi ambienti gli chiedono di salvare Michele Sindona, e lo invitano ad avallare documenti che comproverebbero la buona fede del banchiere siciliano. Ma lui conferma la necessità di liquidare la banca e di riconoscere le gravi responsabilità penali di Sindona. Se Ambrosoli si fosse fatto convincere lo Stato Italiano, tramite la Banca d’Italia, sarebbe stato costretto a sanare gli ingentissimi scoperti dell’istituto di credito e Sindona avrebbe avrebbe evitato ogni coinvolgimento sia penale che civile.
Quindi alle pressioni si aggiungono le minacce esplicite, sempre più incalzanti, mirate, provenienti dagli ambienti che ruotano attorno a Sindona, ma anche da una parte del mondo politico e dalla loggia massonica “Propaganda 2” di Licio Gelli. Una lotta impari durata cinque anni. Persino il suo stesso assassino lo chiamerà direttamente al telefono annunciandogli la sua morte.
Le pressioni sono fortissime, l’isolamento pure, ma Giorgio Ambrosoli non recede di un millimetro. Lui, nato a Milano nel 1933, da una famiglia permeata da un’educazione basata su una profonda fede cattolica, ha interiorizzato profondamente proprio quei valori e quei doveri morali che per un cristiano sono impegni di vita quotidiana, quindi non solo non non si lascia intimorire ma coniuga il mandato ricevuto da Carli con la concezione profondamente cattolica dello spendersi in prima persona, di condurre fino in fondo la “buona battaglia” per dirla Secondo San Paolo. E’ un avvocato serio, intransigente, di “brutto carattere” come dicevano quelli che non riuscivano a comprarlo. E’ un uomo per bene impegnato nel fare onestamente il suo lavoro.
A quarant’anni si trova a fare politica nell’accezione più alta e più nobile: non per un partito ma in nome e per conto dello Stato italiano. Ha piena coscienza degli enormi rischi ai quali va incontro, sa che la sua vita è appesa a un filo. La bellissima lettera che nel 1975 indirizza alla moglie ha il tono alto, il distacco etico dei condannati a morte della Resistenza.
“ Anna carissima, qualunque cosa succeda, tu sai cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto. Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi,verso la famiglia e nel senso trascendente che io ho verso il paese, si chiami Italia si chiami Europa. Riuscirai benissimo ne sono certo perchè tu sei molto brava e perchè i tre ragazzi sono uno meglio dell’altro. Sarà per te una vita dura ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai sempre il tuo dovere”.
Ambrosoli quindi viene lasciato solo. Volutamente. Più va a fondo più aumenta l’aria rarefatta attorno a lui. Politicamente può contare esclusivamente su Ugo La Malfa, professionalmente sul maresciallo della Guardia di Finanza Silvio Novembre, il quale gli fa da scorta, da assistente, da aiutante. Il sottufficiale di fronte all’evidenza e alla concretezza delle minacce di morte e del pericolo incombente chiede insistentemente che all’avvocato Ambrosoli venga accordata una vera protezione da parte dello Stato, ma non riceverà mai alcuna risposta.
Giovanni Falcone sosteneva che: “ La mafia uccide i servitori dello Stato che lo Stato abbandona”.
Perché la mafia prima delegittima, poi isola, quindi uccide. E nella storia di Ambrosoli troviamo tutte queste tre condizioni.
Giorgio Ambrosoli venne abbandonato, isolato, lasciato solo a combattere contro la più potente e ramificata organizzazione criminale. Quella mafia che in quegli anni non veniva neppure riconosciuta nei tribunali come un’associazione criminale organizzata ( bisognerà arrivare al 1986, al 1° maxi- processo di Palermo per certificare “l’organizzazione mafiosa unitaria e verticistica” ) quella piovra in stretti rapporti con certa parte del mondo affaristico-poltico, che si configura e si identifica come “Stato-ombra”. La cui principale finalità è la ricerca del guadagno, attraverso il percorso potere-profitto, quindi acquisizione della gestione, o del controllo, di attività economiche.
Nella vita e nell’impegno di Ambrosoli troviamo inequivocabili similitudini con la vita, l’impegno e persino la stessa solitudine istituzionale, di personaggi che, purtroppo, ne condivideranno la sorte, dal commissario Boris Giuliano, che non a caso, verrà ucciso proprio nello stesso periodo e dagli stessi mandanti, a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Li accomuna la stessa volontà di fare onestamente il proprio dovere di servitori dello Stato, di capire, di comprendere la dimensione dell’anti-Stato, le sue ramificazioni, la stessa risolutezza nel voler andare avanti. Costi quel che costi, anche la vita.
Giorgio Ambrosoli con il suo impegno e il suo sacrificio ci ha dimostrato che è assolutamente possibile combattere la più potente organizzazione criminale che può vantare un’attività che si protrae da oltre un secolo e mezzo. Tutti coloro che sono caduti sul fronte della legalità hanno raccolto il suo stesso testimone. Ma è dovere di noi tutti impegnarsi concretamente perché non vi siano più eroi isolati. Di eroi veri ce ne sono pochi in giro, di eroi borghesi pochissimi. Non ci devono più essere eroi isolati a combattere le mafie, ma sempre più cittadini consapevoli del proprio insostituibile ruolo.
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